Marina Zanotti (Malawi) – 24/05/2019

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Riportiamo la lettera di Marina Zanotti un’infermiera italiana da anni impegnata in Malawi con bambini disabili e spesso emarginati e con persone affette dall’AIDS.

Da tempo non mi capitava di commuovermi durante una riunione…!

L’abitudine, come una malattia, si è insinuata in ogni attività, e quindi anche nelle riunioni, facendoci da un lato, acquisire sicurezza e dimestichezza nel nostro agire ma dall’altro facendoci dimenticare motivazioni e scopi per focalizzarci quasi esclusivamente sull’efficienza o meno del nostro operato. L’abilità di Eric nel saper ripercorrere a ritroso la storia del gruppo Tiyende Pamodzi, mettendo a fuoco i bisogni che hanno condotto i suoi membri ad incontrarsi con regolarità fino a costituire un gruppo, ha permesso un tuffo nel passato, consentendo a tutti di rivivere situazioni e dinamiche che, una volta superate, hanno saputo farci diventare le persone che siamo.

Nei 14 anni di vita del gruppo la conquista più importante è stata quella di aver contribuito a ridurre l’emarginazione sociale a carico delle persone sieropositive attraverso la quotidiana condivisione di pensieri, idee e lavoro fra persone affette dal virus HIV e persone sane, superando tensioni e pregiudizi in nome dei più importanti e comuni valori di rispetto e solidarietà. I tanti zikomo kwambiri (grazie) pronunciati con sincerità e spontaneità dai membri del gruppo dopo un attento ascolto delle parole di Eric mi hanno commosso e mi hanno mostrato quanto sia importante lavorare sulla propria storia per continuare a nutrire il proprio domani. L’autostima raggiunta da alcuni membri del gruppo si è infatti rivelata ingrediente fondamentale per pianificare un futuro più ricco di speranze che di paure.

Anche durante le visite domiciliari ai pazienti oncologici è significativo ripercorrere la loro storia di malattia: sono spesso i loro “care givers” più ancora degli stessi malati ad avere bene impresso nella mente il ricordo delle tante tribolazioni e dei tanti disagi vissuti per poter giungere ad una diagnosi e quindi poter trovare e seguire la relativa terapia. Isaac Wadali è un ragazzo di 22 anni da 2 anni in lotta con un linfoma non Hodgking per le cui diagnosi e terapia è stato costretto a settimane di ricoveri ospedalieri, prima ogni 15 giorni e poi ogni mese nella lontana città di Blantyre, dove tutt’ora si reca per periodici e regolari controlli ematici.

È la mamma a raccontarci le tante difficoltà e i tanti sacrifici dovuti affrontare perché suo figlio ritrovasse la vita. Mentre parla ricordando date, avvenimenti, persone guardo il suo volto che pare raccontare ciò che vede ancora scorrere davanti ai suoi occhi come in un eterno presente ed osservo lo sguardo dimesso e timido di Isaac, che si limita a confermare con cenni di assenso del capo e i cui occhi si fanno di tanto in tanto lucidi e umidi. Riassumendo ad alta voce le parole della madre, incoraggio Isaac a prendere esempio dalla sua grinta e caparbietà per continuare la sua lotta contro la malattia, così da ricambiare quell’amore che la madre è stata capace di donargli fino a fargli raggiungere un’insperata salvezza. Simile la storia di Sabiti Meya, 22 anni e un sarcoma di Kaposi ormai diffuso in tutto il corpo; sarcoma che tuttavia, grazie ad una madre incapace di arrendersi, sembra aver rallentato il suo decorso, permettendo addirittura a Sabiti di proseguire il secondo anno di scuola media. Io per prima mi lascio incantare ed interrogare da queste vite sulle quali nessuno avrebbe mai scommesso nulla.

Quante lezioni che nessun libro potrà mai donare!

Quanto ricca diventa la vita qualora siamo disposti a lasciarci abitare dagli altri partecipando con sentimenti di prossimità ed affetto alle vicende dolorose o liete dell’ALTRO.

Ancora una volta riconosco il privilegio di svolgere un lavoro che amo e mi riempie.

Un misto di commozione, emozioni, eccitazione e riconoscenza è quello vissuto durante la gita del 12 maggio al lago con i 60 volontari dell’assistenza, persone per lo più analfabete ed in terapia antiretrovirale che da anni dedicano gratuitamente parte delle loro giornate alla cura di altre persone malate o con disabilità dei loro villaggi.

A precedere la gioia espressa nelle canzoni urlate a squarciagola durante le 3 ore di camion, l’eccitazione dei preparativi visibili nei volti dei volontari, impegnati a lavare e stirare gli indumenti più belli da indossare per quella giornata o a cucinare arachidi e soia da sgranocchiare in compagnia; quindi l’agitazione fanciullesca nel salire sulle imbarcazioni che ci conducevano verso il meraviglioso spettacolo di miriadi di pesci multicolori, di solito privilegio riservato a pochi fortunati turisti. Risate e urla di gioia fra un tuffo e l’altro, come se l’acqua avesse guarito malattie e dispiaceri di tutti e di ognuno, vivo interesse e vivace curiosità durante la visita guidata sul traghetto ILALA non più funzionante ma diventato pezzo da museo che porta con sé un pezzetto di storia del Malawi e poi altre 3 ore di camion e canti ininterrotti sotto una cascata di stelle.

In quelle ore di canti e scossoni condite da sole, luna e vento in faccia, guardo quei tanti corpi addossati gli uni agli altri che sembrano oscillare come un unico corpo ad ogni brusca frenata, ad ogni sobbalzo o tratto sterrato.

In quella folla “sento” il posto vuoto di Joyce e sono contenta di mascherare dietro grossi occhiali da sole le lacrime che fuoriescono senza controllo; per fortuna insieme alla commozione per chi non è più con noi ci sono la commozione davanti a presenze nuove come la madre di Mussa che, dopo 10 anni dalla morte del figlio, ha deciso di unirsi al gruppo come volontaria e la riconoscenza e l’affetto grandi per le persone come Patrizia, Anna, Emanuela, Maura, Sonia, Dario e Sabrina che, pur fisicamente lontane, ci hanno regalato questa giornata memorabile fatta di spensieratezza, meraviglia e stupore e soprattutto lontana da medicine, ospedali, zappe e terra.

Marina

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